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friend of the month: Vasilij Grossman "Life and Destiny"

domenica 15 novembre 2009

A sound that demands attention

Ho ascoltato gli Armstrong?
Prima su disco e poi su palco.
E mi è piaciuto pensare che a volte ciò che nasce da una domanda è capace di portare con sè un Senso.
O una risposta. A quella, e ad altre domande.
O, ancora, una motivazione nuova tale da rendere qualsiasi risposta indifferente infine alla domanda.
Per farmi capire: ho letto recentemente, in una deliziosamente breve recensione che il gruppo che qui cito creates a wave that washes over the listener. Oltre a convenire con questo, e altri giudizi là espressi a proposito degli Armstrong?, ho finito con il compensarmi dal non aver compreso l'origine del nome del gruppo con la seguente conclusione: gli Armstrong? spazzano via qualsiasi domanda (o pippa che dir si voglia) con il washing over della loro musica.

Mai uso della parola fu più felice e descrittivo. Per capirlo occorrerebbe mettersi sotto il palco di un concerto dei Nostri, come ho fatto io a Prato al capanno blackout- piacevolissimo distributore di musica indieandothergenres nato dalla cura investitrice dello scampolo di profitti dell'industria tessile locale-.
Premesso che dispiace sempre scoprire come giovani fighetti non sappiano sempre riconoscere la puzza di buona musica, neanche quando viene messa loro sotto il naso, e preferiscano ibernare outdoors accanto a neon truccati, piuttosto che godersi un ottimo concerto confezionato con arte sartoriale in modo da non durare più giri di quanti l'orecchio possa contenere.
Premesso che gli Armstrong? sono in tre ma si stringono a coorte, così da sembrare un esercito collaudatissimo di artigiani della musica.
Concesso che i loro suoni, nel caso toscano, erano distribuiti da un bravissimo sound engineer che aveva la verve d'un direttore d'orchestra.
Vogliamo dire qui che da Torino è arrivato un gruppo che finalmente! ci fa usare i punti esclamativi, dopo gli interrogativi di prammatica e di nome(d'arte). Che ci conquista non con immaginette sacre da distribuire con carico di glosse e citazioni, ma con lo stile privato e di gusto del design (creato dall'altra vita che conducono alcuni di loro), che racchiude o schiude i loro dischi. Che ci piace per quello che fa e per come lo fa: con una serietà, una concentrazione e una grinta delicata per la quale sul palco ciascuno di loro mi ha fatto pensare ai personaggi di un trittico. Ciascuno perfettamente compreso nello spazio musicale del proprio strumento, e insieme collegato allo schema, alla struttura d'insieme. Così, Roberto alla chitarra inserisce le voci in modo essenziale ma particolarmente intenso, come una spezia che c'è, ma quasi non si sente. Marco incide fin dalla prima nota lo spazio e il tempo dentro un potentissimo tamburo musicale. Stefano sostiene tutto con un basso suonato sapientemente e con picchi bellissimi che sempre più raramente la musica di queste nuove frequenze millenarie ci concede.
Armati di un vasto catalogo di strumentazione, questi uomini dalle braccia magre devono aver fatto un patto con quel diavolo che certi rumor fanno risiedere nel triangolo satanico cui la capitale piemontese si dice appartenga.

Si ringrazia dunque il diavolo e tutti i punti interrogativi che li hanno spinti a creare un suono che s'impone e che demands attention.
E si invita alla degustazione, o anche solo all'assaggio: qui.


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